Cronaca del processo agli indipendentisti catalani / 1

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Osservatorio settimanale
16/02/2019 – di Elena Marisol Brandolini
CRONACA DEL PROCESSO AGLI INDIPENDENTISTI CATALANI  / 1
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I primi tre giorni
È cominciato martedì 12 febbraio, presso il Tribunal Supremo di Madrid, il processo (Causa Speciale 20907/2017) ai 12 leader dell’indipendentismo catalano che nell’autunno del 2017 realizzarono il referendum del 1 ottobre, che portò alla dichiarazione unilaterale di indipendenza il 27 di quello stesso mese. La risposta del Governo spagnolo, allora guidato dal popolare Mariano Rajoy, fu l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione con il commissariamento della Generalitat, il carcere per metà del Governo (l’altra metà si rifugiò all’estero) e la celebrazione di elezioni catalane il 21 dicembre del 2017, elezioni in cui i partiti indipendentisti riconquistarono la maggioranza parlamentare.
Il processo è iniziato all’indomani della sospensione del dialogo con la Generalitat da parte del Governo del socialista Pedro Sánchez, stretto tra le critiche interne al suo partito e la destra in piazza. Viene celebrato in contemporanea con la bocciatura della finanziaria da parte dei partiti indipendentisti, che ha fatto saltare la fragile maggioranza che aveva permesso nel luglio scorso la cacciata dal governo del Partito popolare. E continuerà nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche anticipate del prossimo 28 di aprile.
Sul banco degli imputati, cinque ex-consiglieri e il vicepresidente della Generalitat Oriol Junqueras, l’ex-presidente del Parlament Carme Forcadell e i due leader dell’associazionismo indipendentista, Jordi Sánchez e Jordi Cuixart. Tutti in prigione preventiva da tempo, anche oltre un anno. Tutti accusati di ribellione, e chi era al governo anche di malversazione di fondi pubblici, con una richiesta di pene tra i 16 e i 25 anni di reclusione. A essi si aggiungono altri tre ex-consiglieri in libertà vigilata, accusati di disobbedienza e malversazione, con richiesta di 7 anni di carcere.
L’accusa è rappresentata dalla Procura Generale, dall’Avvocatura dello Stato e dal partito di estrema destra Vox, nella sua componente popolare.
I primi due giorni sono stati occupati dalle considerazioni della difesa e dell’accusa
Il pubblico ministero ha confermato l’impianto accusatorio contenuto nella sua memoria processuale, per giustificare l’imputazione del delitto di ribellione. Questo delitto richiede l’esercizio della violenza, come fu nel caso del tentato golpe di Stato del colonnello Antonio Tejero il 23 febbraio del 1981. Una violenza che, invece, nel corso dell’autunno catalano e di tutto il procés non c’è mai stata, come hanno ritenuto le autorità giudiziarie di Belgio e Germania, negando, per assenza del relativo presupposto, l’estradizione richiesta per Carles Puigdemont e gli altri indipendentisti esiliati. Ma nella macro-causa contro l’indipendentismo, l’accusa indvidua la violenza nella pressione delle masse popolari sulle forze dell’ordine, il 20 settembre e il 1 ottobre, per impedire il compimento del loro mandato. Aggiungendo che, se ci fu un uso della forza da parte delle polizie spagnole, esso fu indotto dalla presenza massiccia e minacciosa dei manifestanti.
Le difese, pur con accenti differenti al loro interno, hanno denunciato la violazione delle libertà e dei diritti fondamentali che si vanno compiendo nel processo: dalla libertà di espressione al diritto di protesta, dal diritto al giudice naturale stabilito per legge a quello alla libertà personale. Un processo, secondo l’avvocato capofila della difesa, che ha per oggetto un progetto politico, un’ideologia concreta.
Nel terzo giorno sono cominciati gli interrogatori degli imputati
Il primo a rispondere è stato Oriol Junqueras. Fin dalle prime parole ha chiarito il senso della sua deposizione: dichiarandosi prigioniero politico, ha annunciato che avrebbe risposto solo alla difesa. Junqueras si è assunto le responsabilità di quanto fatto allora dal Governo «perché dovevamo eseguire il mandato democratico», ma sempre rivendicando il dialogo «perché quando c’è una mobilitazione pacifica prolungata nel tempo bisogna darle una soluzione politica». «Mai, mai, mai abbiamo accettato né avallato la violenza. Non lo dico io, ma l’opinione e la stampa mondiale». «Votare non è un delitto, ma impedirlo con la forza sì che è un delitto», ha affermato, riferendosi al referendum del 1 ottobre.
Quindi è stata la volta di Quim Forn, anche lui in carcere, ex-conseller degli interni, alle cui dipendenze sono i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana. Ha risposto alle sole domande della Procura Generale e dell’Avvocatura dello Stato, oltre a quelle del suo avvocato. La sua strategia difensiva si è differenziata da quella di Junqueras, anche per il ruolo ricoperto nel Governo. Perciò ha insistito nel distinguere la sua adesione politica al progetto indipendentista dall’attività del suo dipartimento: «Ero d’accordo col referendum ma non ho mai utizzato il dipartimento per questo. Anzi, dissi ai Mossos che avrebbero dovuto eseguire gli ordini giudiziari». Come Junqueras, ha rivendicato la legittimità del ricorso alle urne, l’assenza di violenza nell’indipendentismo e la necessità di una soluzione politica.
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