Barcelona. Combate de Relatos

Sara Beltrame   Doppiozero   02.09.2017
Come in tutti i luoghi nei quali si è appena consumata una tragedia, sugli accadimenti di Barcellona in questi giorni, si è prodotta una quantità estrema di racconti. Vivendo qui da quasi 10 anni si ha la sensazione – leggendoli – che pochi di essi tengano conto obbiettivamente del campo nel quale i fatti si sono svolti: la Catalunya. Quando si atterra a Barcellona, si atterra in Catalunya. Quando si sbarca a Barcellona, si sbarca in Catalunya. Quando si colpisce Barcellona si colpisce Catalunya. Una gran parte delle persone che stanno leggendo queste frasi, starà anche probabilmente rovesciando gli occhi al cielo, così come li rovesciavamo noi veneti negli anni ’90, nell’ascoltare certi racconti che iniziavano a divulgare i leghisti. Spesso dall’Italia si procede a calcolare la seguente uguaglianza: Catalani = Leghisti.
Non è possibile scollare il racconto dei fatti accaduti nei giorni scorsi dal luogo nel quale sono intercorsi: la città di Barcellona, in Catalunya. Così come risulta complicato raccontare la Catalunya vivendo in Spagna, raccontarla stando in un altro Paese (per esempio l’Italia) produrrà per forza un racconto evidentemente imparziale.
È complicato, sì. Allora, ogni volta che cerco di capirli, i Catalani, la prima cosa che mi viene da fare – è proprio una strategia mentale – è ricordarmi la data esatta della morte di Francisco Franco, il dittatore: 20 Novembre 1975.
Nel 1975 sono nata.
Ed era pure Novembre.
I miei genitori erano dei sessantottini moderati piuttosto idealisti, finiti a vivere in una delle città più bianche d’Italia. Treviso.
Che fecero?
Da bravi sessantottini moderati ci fondarono una comune, in accordo con una decina di famiglie.
Quando moriva Franco in Spagna, mio padre fondava un luogo utopico dove avremmo vissuto per più di vent’anni e che ancora resiste. Mentre io muovevo i primi passi nella comune, Ada Colau muoveva i primi passi in una Catalunya recentemente liberata da una dittatura durata trentasei anni nella quale il catalano – per ragione di vita o di morte – veniva a malapena sussurrato all’orecchio sui tetti delle case. Mentre io imparavo a parlare aiutata dai miei fratelli e sorelle, i genitori di Ada Colau potevano insegnare finalmente alla loro figlia e ad alta voce una delle sue prime parole catalane: M A R E (mamma).
Siamo cugini, questo ci dicevano a scuola sugli spagnoli e se misuriamo la relazione di parentela in termini di tempo democratico respirato, loro sono i più piccoli. Loro i Catalani, loro gli Spagnoli.
Anzi, meglio. Loro sono i più giovani. Spesso sono raccontati dal governo centrale spagnolo come ribelli, disobbedienti e aggiungerei adolescenti. Respirano democrazia da molti meno anni di noi con tutta l’energia, i vantaggi e gli svantaggi che essere così giovani comporta.
È interessante essere qui in questo momento e non lo si può né vivere né raccontare senza ricordarsi che Barcellona sta in Catalunya, Catalunya sta in Spagna e che la generazione di Ada Colau è figlia di una dittatura: Felipe VI è figlio del Re Juan Carlos che è rimasto in carica al fianco del dittatore Francisco Franco fino al giorno della sua abdicazione, avvenuta il 19 Giugno 2014. Due anni fa.
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__title__ Passeig de Gracia – entrata a Piazza Catalunya. Sabato 26 Agosto, h. 17.50. “Felipe, chi vuole la pace non traffica con le armi.” (Foto gentilmente concessa da Sonia Pau/”El Punt Avui”)
Barcellona, 26 Agosto 2017
Hashtags:
#noteimpor (non abbiamo paura)
#anemdeblau (andiamo in blu)
Alla manifestazione civile convocata e voluta dal Comune di Barcellona – rappresentato da Ada Colau – e dalla Generalitat di Catalunya – rappresentata da Carles Puigdemont – e rivolta alle entità civili catalane, aderiscono 170 associazioni. Nel comunicato ufficiale scritto dal Comune e dalla Generalitat, si propone ai cittadini di andare vestiti di blu “perché è il colore del Mar Mediterraneo che unisce tanti popoli che subiscono tragedie simili e perché è stato il colore scelto in altre mobilitazioni in difesa dei rifugiati e dei diritti umani.”
Il motto della manifestazione è:
“Le vostre politiche, le nostre morti. Pace, solidarietà e convivenza nella diversità.”
Si stabilisce che la prima linea di manifestanti sia occupata dai rappresentanti delle associazioni presenti. A bordo strada, vicino agli alberi di Passeig de Gracia, sono stati lasciati cartelli gialli e blu con varie scritte. Cartelli molto professionali, ben stampati, ben leggibili.
Ore 17.50.
Sonia Pau, giornalista de El Punt Avui:
“Ero giusto vicino alla prima linea di manifestanti, riservata ai medici, agli infermieri, ai Mossos d’Esquadra, alla gente della protezione civile, ai rappresentanti delle ONG e ai parenti delle vittime. Volevo intervistare le persone che avevano vissuto l’esperienza da vicino. Sapevo che dovevano arrivare anche le istituzioni politiche e la mia idea era semplicemente aspettare che se ne andassero per intervistare la gente comune. Per esempio le persone della Biblioteca del Raval – che sta a pochi metri dalla Rambla e che sapevo avevano dato soccorso e aiuto ai passanti quel giorno – o gli infermieri eccetera. Avevo ovviamente l’accredito stampa e quindi sarei dovuta entrare dall’altro lato di Piazza Catalunya, dove c’erano gli altri colleghi in diretta televisiva, le radio, i fotografi. La zona in cui mi trovavo io non era quella dedicata ai giornalisti. Avrei dovuto stare da un’altra parte. C’era moltissima polizia, moltissimi infiltrati. Mi guardavano, certo, ma essendoci anche molta altra gente avranno pensato che fossi una di loro, una dei rappresentanti delle 170 associazioni presenti. Essendomi sempre occupata, come giornalista, di temi sociali – di immigrazione, di cooperazione, di diritto all’infanzia, di esclusione sociale – la maggior parte delle persone presenti mi conoscevano e ovviamente nessuna ha puntato il dito contro di me per dirmi che non era quello il mio posto. Ho semplicemente pensato: “Se vogliono allontanarmi da qui, mi allontanano e amen.” A un certo punto, mancavano pochi minuti all’inizio della manifestazione, ho sentito dei fischi e ho visto che tra la folla si apriva in una specie di corridoio umano. Dopo qualche istante, in fondo a questo corridoio è apparso il Re, Felipe VI. Al suo passaggio la gente ha alzato i cartelli che erano stati preparati e lasciati lungo la strada qualche momento prima che iniziasse la manifestazione. Sapevo che l’avrebbero fatto perché prima che arrivasse il Re era già corsa la voce tra i presenti: mostrare quei cartelli proprio al suo passaggio. Quindi, l’ho visto arrivare, ho tirato fuori il cellulare e ho iniziato a scattare qualche foto.”
Questo è quello che mi spiega Sonia Pau, giornalista di un quotidiano catalano, quando le chiedo di raccontarmi la storia che c’è dietro la foto più twittata da stampa spagnola e estera quel giorno. L’uomo che guarda dritto verso l’obbiettivo del cellulare di Sonia Pau è David Minoves.
David è presidente del CIEMEN, il Centro Internazionale Escarré per le Minoranze etniche e le Nazioni. Sono entrambi Catalani.
Mentre Sonia invia a David su WhatsApp la foto scattata al passaggio del Re e David – intuendone la potenza evidente – la pubblica immediatamente sul suo profilo di Twitter, i politici e il Re raggiungono i parenti delle vittime. I cartelli attorno a loro si moltiplicano e denunciano più o meno tutti la stessa cosa.
Sonia tiene a sottolineare che, così come tutta la gente era d’accordo di sollevare i cartelli al passaggio della classe politica e del Re, era anche d’accordo che non avrebbe scattato nessuna fotografia ai parenti delle vittime, in nessun momento e in nessun caso.
E così è stato.
David Minoves, presidente del CIEMEN:
“Ho scelto quel cartello. Era lì tra gli altri, appoggiato per terra, ma ho scelto consapevolmente proprio quello perché sono anni che critico la classe politica che appoggia economicamente gli stati che fomentano l’odio, commerciando in armi. Volevo denunciare, come ho sempre fatto. Quando si è aperto il corridoio nel quale il Re è sfilato, ha dato la mano a tutti. Arrivato alla mia altezza, si è girato verso di noi, ha evidentemente letto il cartello e poi si è voltato dall’altra parte. Bisognerebbe andare un po’ più indietro nell’esaminare il contenuto specifico di questi accadimenti e della manifestazione di Sabato e non ridurre questa fotografia a una mera e personalissima battaglia che combatto da tempo contro un certo potere politico.”
Questa fotografia è interessante perché è diventata virale e la gente che l’ha vista ha immediatamente generato per iscritto due racconti diversi ma accomunati da uno stesso titolo: “No Tenim Por.”
Due racconti che si danno battaglia da secoli.
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__title__ Las Ramblas, nel punto in cui il furgone dell’attentatore finisce la sua corsa. “Nothing Changes”. Martedí 29 Agosto. (Foto di Sara Beltrame.)
Il primo, il più immediato, il più semplice, inizia in quel pomeriggio sulla Rambla e finisce a Piazza Catalunya Sabato 26 Agosto. La morale di questo racconto è che la gente a Barcellona non ha paura del terrorismo.
Il secondo, il più ampio, inizia ufficialmente l’11 settembre 1714.
Affonda le radici nella storia delle relazioni tra lo Stato Spagnolo e la Comunità autonoma Catalana e, sebbene non sia ancora terminato, la morale di questo racconto è che parecchie delle persone che sollevavano i cartelli al passaggio del Re Felipe VI di Spagna, no tenen por non solo dei terroristi, ma nemmeno della classe dirigente Spagnola, non hanno paura del Re e non hanno paura di denunciare le politiche economiche spagnole ed internazionali, che con una mano puntano il dito contro gli attentati e con l’altra finanziano la vendita d’armi negli stessi stati in cui si genera un racconto radicalizzato della religione musulmana (leggi l’articolo de El Público sul perché Felipe VI è stato fischiato durante la manifestazione)
Non hanno paura di disobbedire e di conseguenza non avranno paura di esprimere il proprio voto al referendum del primo d’ottobre, dichiarato incostituzionale dal governo centrale.
Lì dove uno di questi due racconti viene minimizzato, l’altro viene evidentemente esaltato. Per districarsi nella quantità esagerata di informazione generata in questi giorni, è necessario scendere per strada e parlare con la gente (come ha fatto Sonia Pau), sollevare un cartello al passaggio del Re e poi spiegarne il gesto (come ha fatto David Minoves) oppure, se si è giornalisti stranieri a Barcellona, tener conto che la Spagna è uno stato democratico costituito da 17 comunità autonome, una delle quali è Catalunya, come ha fatto Elena Marisol Brandolini invitata alla trasmissione Radio Anch’io andata in onda il giorno prima della manifestazione.
Elena Marisol Brandolini:
“La questione è semplice”, mi dice Elena, “neppure se scrivi della Catalunya vivendo in Spagna puoi capirla la Catalunya! Devi stare qui per capire esattamente la portata di questo movimento. Il movimento indipendentista è un movimento progressista che pone al centro del proprio discorso la Democrazia. Una Democrazia molto giovane. È giusto che la Spagna permetta ai Catalani di decidere il proprio destino, cosa che invece non sta facendo. Anzi.”
Che cosa c’entra questo con gli attentati terroristici?
“Le fake news sono state raccontate da una parte della classe politica spagnola – la dirigente – e veicolate dalla stampa spagnola in maniera sistematica, in questi giorni. Ed è chiaro che, avendo la stampa italiana come riferimento giornali come El País, El Mundo o ABC, il racconto sia arrivato spesso falsato. Lasciando da parte la questione evidente e ormai incontrollabile della manipolazione e pubblicazione delle notizie nei quotidiani spagnoli, quello che è veramente interessante in questo frangente e che ancora non ha risposta è chiedersi il perché i Mossos d’Esquadra, che a più riprese, prima degli attentati, hanno domandato per ragioni di sicurezza l’integrazione e quindi l’accesso ai dati dell’Europol, ne siano invece stati lasciati fuori.”
Questo accadeva il 16 Giugno del 2017, quando già da tempo Barcellona si trovava in uno stato di allerta 4 su 5. La richiesta di entrare nell’Europol (accolta dallo stato spagnolo nello stesso giorno nel caso della domanda fatta dalla polizia Basca), era accompagnata anche dalla richiesta urgente al governo spagnolo della creazione di 500 nuovi posti di lavoro “assolutamente necessaria” per ragioni di sicurezza da parte dei Mossos d’Esquadra (fonte: El Nacional).
Entrare o meno nell’Europol significa condividere potere e informazioni.
Catalunya, al momento degli attentati, ne era (e ne è tutt’ora) esclusa, per un “No” senza apparente giustificazione pronunciato da Madrid.
Un’altra spaccatura tra lo Stato Spagnolo e la Comunità autonoma catalana nasce dalla mancata attuazione delle politiche di accoglienza dei rifugiati da parte dello Stato Spagnolo. Solo in Febbraio l’associazione “Casa Nostra Casa Vostra” aveva organizzato una grande manifestazione a Barcellona, a favore dell’accoglienza e del sostegno dei rifugiati, caratterizzata dalla prima “marea blava”, un fiume di persone vestite di blu da cui nacque l’hashtag #anemdeblau. Anche in quel caso era evidente la battaglia dei racconti tra lo Stato Spagnolo e la Comunità Autonoma Catalana, inascoltata, perché esigeva con forza l’attuazione delle politiche di accoglienza previste ma all’estero, indentificando Barcellona con il potere centrale di Madrid, ci si continuava a sorprendere sul fatto che la Spagna fosse l’unico stato Europeo ad aver accolto un numero di gran lunga inferiore a quello previsto dalla Comunità Europea.
E con Spagna si identifica Catalunya.
E con Catalunya si puntano gli occhi su Ada Colau.
Sbagliato.
Ci sono due racconti che continuano a darsi battaglia ad armi impari dall’11 Settembre 1714, anno in cui Felipe V opprime nel sangue, con forza e definitivamente, le istituzioni libere della Catalunya e Barcellona viene sottomessa alla corona.
Che fanno i Catalani? Scelgono quel giorno come la data della loro Festa Nazionale.
Mancano ormai pochi giorni alle celebrazioni della Festa Nazionale Catalana, così come mancano pochi giorni al referendum sull’indipendenza previsto per il 1 di ottobre e pochi ne mancano alla data limite indicata allo stato spagnolo per l’accoglienza dei rifugiati.
“Ma perché celebrate una sconfitta, si può sapere?” chiesi a un amico catalano, un giorno.
“Perquè hem perdut la batalla, no la guerra.” Mi rispose.
Era il 10 Settembre 2008 e mi stava insegnando a navigare per il Mar Mediterraneo su un patí català, l’unica imbarcazione al mondo a non avere il timone. Se la sono inventata loro.
C’era il sole, 15 nodi di vento teso e il mare, allora, si presentava con un lieve accenno d’onda.
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