Dall'indipendentismo al repubblicanesimo

31-10-2015.-
GENNARO FERRAIUOLO
Non so dire se siano cambiate alcune delle parole d’ordine del procés o soltanto le mie impressioni di osservatore esterno: mi sembra però di cogliere, seguendo le recenti vicende, un riferimento sempre più insistito all’orizzonte della República catalana.

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republica catalana         diarigran.cat

“Via lliure a la República catalana” è stato, non casualmente, il claim dell’ultima imponente manifestazione della Meridiana: dopo il nou Estat (d’Europa) e la independència (la via catalana cap a la), la República. Fino a non molti mesi fa republicana evocava, principalmente, la tradizionale Esquerra de Catalunya; ora quella formula permea, in maniera sempre più profonda, l’intero procés.
Una formula che, nella sua semplicità, può destabilizzare apparati concettuali e categorie di formidabile solidità. Almeno sul terreno costituzionale.
La rigidità della Costituzione è una fondamentale conquista della civiltà giuridica che mira a salvaguardare alcuni principi di giustizia (positivizzati) dagli egoismi delle maggioranze politiche contingenti. Tale idea si regge sui seguenti postulati: 1) la Costituzione può essere modificata solo attraverso specifici procedimenti disciplinati dalla Costituzione medesima, più complessi di quelli necessari alla approvazione delle semplici leggi (rigidità formale); 2) esistono alcuni principi immodificabili in quanto connessi all’identità stessa di un ordinamento costituzionale: la loro alterazione rappresenterebbe non una modifica ma il superamento della Costituzione (rigidità assoluta); 3) è previsto un organo giurisdizionale (per quanto sui generis) che giudica sulla conformità delle leggi a Costituzione, assicurando il rispetto dei precedenti principi (garanzia della rigidità).
L’indipendenza è una opzione destinata a scontrarsi frontalmente con gli assunti elencati: sarà sempre sostenuta da minoranze nazionali che non hanno accesso (numericamente) ai procedimenti di revisione; per di più, si rivolge contro il principio unitario, di norma attratto nel nucleo costituzionale immodificabile (checché ne dica il TC, che sul punto adotta una strategia subdola: affermo che puoi fare legalmente l’indipendenza perché tanto non avrai mai la forza politica per farla). Pertanto hanno gioco facile coloro che bollano la prospettiva della secessione come ineluttabilmente incostituzionale e, dunque, antidemocratica (ovvero contraria a quella forma avanzata di democrazia che è la democrazia, appunto, costituzionale).
Il rapporto tra rigidità e democrazia è, nella sua concretezza, ben più complesso rispetto alla sua semplificazione concettuale. Di ciò si ha riprova nel fatto che il tema della secessione è stato posto e affrontato in diversi sistemi democratici. Addentrarsi in questo tipo di analisi richiede però pazienza e un notevole sforzo di approfondimento. Così, per l’osservatore esterno mediamente disinteressato, risulterà più comodo adagiarsi su una statica e rassicurante visione dello Stato costituzionale nella quale gli indipendentisti sono destinati, per forza di cose, a rivestire il ruolo dei cattivi.
Il riferimento alla Repubblica può però mutare questa percezione, essendo la sensibilità repubblicana molto più diffusa di quella connessa alla condizione di nazione senza Stato (come è stato efficacemente illustrato il cittadino medio dello Stato-nazione vede solo altri stati-nazione).
E’ concepibile una democrazia senza Repubblica? Certamente sì. E’ anche vero, però, che la seconda rappresenta la massima estensione della prima: il principio repubblicano rimuove aree di potere (e di privilegio) non riconducibili alla sovranità popolare e, di conseguenza, conquista nuovi spazi di eguaglianza. Se è così, etichettare come antidemocratica (solo perché implica un mutamento profondo della Costituzione vigente) una richiesta di transizione alla Repubblica appare quantomeno problematico.
Si inizia a delineare la possibilità di una divaricazione tra democrazia e Costituzione: non tutto quello che sta fuori da una Costituzione data è, necessariamente, meno democratico di quello che si trova al suo interno. Un ordinamento privo di strumenti che gli consentano di misurarsi con tale divaricazione (originaria o sopravvenuta), o in cui non si utilizzino – per la sistematica chiusura delle forze politiche dominanti – gli strumenti previsti a tal fine, potrebbe manifestare alcuni limiti. La distanza tra democrazia e Costituzione rischierebbe infatti di riflettersi su quella tra legittimità e legalità, concetti che in un sistema democraticamente efficiente dovrebbero essere quanto più possibile allineati.
Nel 2014, l’abdicazione del re Juan Carlos si è prodotta in una clima di bassissima fiducia nell’istituzione monarchica (come si evince dai barometri del CIS di quel periodo); in diverse città spagnole si è manifestato a sostegno della Repubblica e i sondaggi indicavano un ampio favore dei cittadini spagnoli ad un referendum sull’alternativa Monarchia/Repubblica. A quasi quarant’anni dalla delicata transizione del 1976-78, il semplice porre la questione avrebbe rappresentato una importante prova di maturazione democratica.
Il Governo di Rajoy, invece, ha preferito ricorrere al medesimo argomento, oramai rodato, speso contro il voto catalano: è incostituzionale, e di ciò che è incostituzionale non si può neanche parlare. Si potrebbe agevolmente controbattere che in realtà lo strumento giuridico – costituzionale – esiste (l’art. 92 CE) e, semplicemente, si è scelto di non utilizzarlo. Evitando così di riconoscere un problema, valutarne la portata, discuterne, individuare le soluzioni: la democrazia.
La Ley Orgánica 3/2014 (por la que se hace efectiva la abdicación de Su Majestad el Rey Don Juan Carlos I de Borbón) è stata approvata al Congreso con il voto di 299 deputati su 350: l’85% della Camera, sostanzialmente il blocco PP-PSOE. Tra i contrari e gli astenuti, accanto al gruppo di Izquierda plural, si ritrovano tutte le forze catalaniste, oltre che gran parte degli altri partiti territoriali.
Di fronte a dinamiche di questo tipo, per il popolo catalano l’indipendenza potrebbe essere l’unica via alla Repubblica. L’indipendenza, dunque, non come fine ma come mezzo: per la transizione repubblicana e magari – chissà – anche per l’affermazione di altri spazi di democrazia. Viva la Repubblica!
versione italiana dell’articolo di Gennaro Ferraiuolo pubblicato in catalano sul media digitale Vilaweb.cat (31.10.2015)

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